Logico che le difficoltà, in una vita quotidiana che sia il più possibile indipendente, ci sono. Ci sono soprattutto per chi, come me, fatica a compiere la più banale delle azioni. Scattano allora dei meccanismi – molto freudiani a dire il vero – di autodifesa o simili, che ti permettono miracolosamente di compiere atti che non avresti nemmeno immaginato. Così ti riesce di fare il caffè e versarlo pure senza scottarti, semplicemente utilizzando una spugna su cui poggiare la moka per far leva. O di cucinare un brodo riempiendo la pentola senza metterla nel lavello, ma lasciandola sul bordo, così da dover solo trascinarla sul fornello. Ancora, apri la finestra (che nel mio super appartamento è elettronica, ma ha il pulsante alto) con l’ausilio della fronte o di un mestolo. Prendi il burro in frigo facendo arrampicare la mano lungo gli scaffali. Ti agganci la borsa coi libri sulle gambe se devi andare a lezione. Forse invece di giurisprudenza dovevi iscriverti ad ingegneria, in effetti. Ti ingegni anche per dei minuti per capire come prendere lo zucchero, così alto. La cosa più bella è salire in autobus dove, a parte i casi umani che ti capita di incontrare, conosci una serie di autisti e ti stupisci di quanto variegate ed interessanti possano essere le norme vigenti nei mezzi pubblici urbani. C’è quello che senza aprir bocca ti fa salire e scendere anche nelle fermate non abilitate e quello che ti fa allacciare pure la cintura. C’è quello che ti saluta cordiale e quell’altro che ti assale dicendo che la responsabilità e la patente sono sue e che dunque mi regoli di conseguenza su come “parcheggiare”. C’è quello con cui ho fatto amicizia e conosce le mie fermate, che incontro un giorno sì e uno no. C’è quello che, esperienza di pochi giorni fa, mi chiede dove devo scendere e mi dice comunque di premere il pulsante. Eseguo. Lui non mi sente, non mi vede, prosegue. Alla fermata successiva si accorge e mi chiede scusa anche in turco, ma intanto mi faccio un quarto d’ora a piedi fino alla facoltà, ridendomela.
L’altro giorno, finito alle 13 lezione, devo comprare il pane per il pranzo. Bisogna sapere che il panificio più comodo dalla mia facoltà è anche esattamente dietro alla fermata dell’autobus, da cui posso facilmente tornare a casa. Ma ha, per entrare, un bel gradino. Mi posto allora di soppiatto lì davanti, nella speranza che qualche buon’anima abbia pietà di me e mi domandi se ho bisogno di qualcosa (bisogna sapere anche che io faccio fatica a fermare le persone per chieder loro una mano). Si ferma un ragazzo che entra, prende il numero e torna fuori. Mi chiede se, in effetti, ho bisogno di qualcosa dentro. Detto fatto, mi prende il pane. E alla mia richiesta di quanto gli debba indietro, mi dice di pagare il caffè a qualcuno con gli spiccioli del pane. E così ci sono le difficoltà, che per chi non le vive apparentemente sono inesistenti, di farsi chiudere l’ombrello da un passante, di farsi levare la giacca da uno sconosciuto, di chiedere un passaggio in ascensore al primo che ti passa davanti.
Le difficoltà di chiedere aiuto. Già perché prima, a casa con la tua famiglia o con gli amici che ti conoscono così bene da prevenire le tue richieste, semplicemente ti era sconosciuto il chiedere aiuto. Ed era bello e molto più facile, certo. Ma ripaga l’ebbrezza di prendere un bus in autonomia, avendo prima chiuso casa e messo a posto il pranzo. La gioia di farsi un the. Ma soprattutto l’enorme soddisfazione di dire: vivo da sola. Sapendo certo che “sola” vuol dire assieme ad un sacco di persone che, in un modo o nell’altro, me lo rendono possibile.
Chiara
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