Ho speso anni a investire tempo, affetto, sentimenti e aspettative sulle parole. A interpretare un buon dialogo con un amico come un segno di compatibilità amorosa. E se nonostante ciò il malcapitato sembrava non volermi come ragazza, ero certa che mi sarebbe bastato approfondire ancora di più, sviluppare l’amicizia, essere ancora più fedele, comprensiva, simpatica, e chi più ne ha più ne metta. Sarei diventata insomma così perfetta che no, non avrebbe potuto rifiutarmi per un motivo così stupido, per un aspetto così secondario come la mancanza di attrazione.
L’attrazione. Come se avessi saputo cos’era. L’avrei scoperto solo molto, molto più tardi, in un modo che all’epoca non potevo certo immaginare.
Poi ho iniziato l’università. Ricordo bene che, il primo giorno, mi sentii piccola. Piccola. Avevo la mia felpina di pile e l’aria spaurita, mentre attorno a me, sopra di me, sugli spalti dell’aula a gradoni, si sedevano persone grandi. Avevamo lo stesso anno di nascita, ma molti anni in meno di vita. Li vedevo muoversi con sicurezza nelle loro camicie, atteggiarsi ad adulti con le loro cartelle.
Buttai via la felpa di pile.
Non bastò. Avevo molte aspettative sulle nuove conoscenze che avrei fatto, tuttavia capii presto che l’università era l’ultimo posto dove stabilire rapporti significativi: troppi studenti a ogni lezione, un vicino di banco diverso ogni volta – e io non potevo nemmeno scegliere dove sedermi. Se l’aula era a gradoni, il mio posto era la prima fila, anzi, ancora più avanti della prima fila, dove comunque sedevano sempre secchioni, i lecchini e i cinquantenni che si prendono la seconda laurea. Quel ragazzo là in alto, in settima fila, non c’era proprio modo di conoscerlo con una scusa.
Cominciavo ad essere triste sul serio. Mi sembrava che tutti intorno a me avessero una brillante vita sentimentale, anche i più sfortunati almeno un bacio lo avevano dato. Io non sapevo neanche cosa si provasse. Mi chiudevo in camera e mi baciavo il dorso della mano immaginando che fosse la bocca di qualcuno, passavo pomeriggi a masturbarmi disperatamente.
C’era internet, certo. Parole, sempre parole. Selezionavo moltissimo i miei contatti, in genere mi fissavo su un’unica persona per periodi lunghissimi. Nottate a chattare, mesi a chattare, intese intellettuali pazzesche. Piccole, minuscole, accennate allusioni, prove generali di flirt, ma senza esagerare, per non spaventarli.
E per non deludere me stessa, soprattutto. Per non arrivare subito alla verità. Per non chiedere: staresti con me? E sentirmi arrivare l’ennesimo, pesante no. L’ennesimo “sei un’ottima amica”. I disabili sono sempre ottimi amici, profondi, saggi, eccetera. Ma non arrapano.
Aspettavo a rivelarmi. Non mandavo foto subito, anzi, a volte non le mandavo mai, fino all’incontro di persona. Seguivo sempre la mia vecchia, malata teoria, per cui avrei dovuto conquistare un ragazzo grazie alla mia profondità interiore, e, fatto questo, lui sarebbe stato pronto ad accettarmi,nonostante il mio corpo.
Me le immaginavo, le frasi da film al momento dell’incontro. “Oh, sei disabile? Guarda, per me non cambia nulla, sei una persona speciale, ti amo così”. Certo, come no.
L’ultima parte della frase mancava sempre.
E oggi non me ne stupisco: il povero ragazzo di turno aveva passato mesi a immaginarmi. Forse aveva intuito che avevo qualcosa di cui vergognarmi, ma avrà pensato al massimo che fossi grassa, o col naso storto. Di certo non così. Come doveva sentirsi, a vedersi arrivare all’improvviso la fregatura?
Finché, quasi all’improvviso, ho capito. Ho capito cosa sbagliavo. Ho ribaltato il metodo. E ha iniziato a funzionare.
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