lenzuola di lino

“E se il segreto dell’Universo avesse a che fare con il sesso?” ci si domanda nel lungometraggio dedicato alla vita dell’astrofisico Stephen Hawking. Considerato il flusso di eventi che ha segnato la mia vita, potrei affermare di essermelo chiesto anche io, più di una volta.

Talvolta salgo all’Osservatorio astronomico, lungo la strada ombrosa che s’inerpica sulla collina tra le abitazioni lussuose e il fogliame fitto. Mi sento un pellegrino che risale la china per raggiungere l’eremo. E, curva dopo curva, mentre si cominciano a intravedere le cupole dell’Osservatorio, il pensiero dell’intimità sperimentata con il cielo si trasforma in una fissazione: dal creato al Creatore, dal Big Bang al coito, l’origine del Tutto.

Vi ho raccontato degli anni maledetti, dell’infanzia scivolata fuori dal sesso acerbo di bambina e lasciata maturare tra le cosce, come un aspro gheriglio di noce ricoperto dal mallo o come un feto ravvolto nella placenta. L’incubazione è, in fondo, crescita. Quel tempo è lontano ormai, eppure ne ricordo il tremore di uccello implume, il miraggio e la seduzione del volo, la frattura irregolare sul guscio dopo la schiusa, l’albume mischiato al sangue che ha battezzato il mio ingresso nell’adolescenza. Il primo sangue. Il dolore che ha aperto la strada al piacere. Come la marea, la prima mestruazione ha riempito il ventre di fluido tepore e poi lo ha riversato fuori dalle carni, in quel fazzoletto di continente sottomesso all’influenza della luna. Il sangue scandiva i mesi ed io mi avvicinavo all’età adulta con passi lunghi e svelti.

Sempre in quegli anni, ho scoperto l’ascendente che esercitavo su taluni, uomini perlopiù, un oscuro, misterioso interesse risvegliato come per gioco. Uno di loro, in particolare, mi sovviene ogni qualvolta ripenso a quell’epoca antesignana. Lo vedevo un paio di volte a settimana, sempre alla stessa ora. La mia famiglia lo aveva assunto per aiutarmi a tenere allenati gli scarni muscoli già indeboliti dalla malattia. I trattamenti duravano sempre più del previsto, e dalla porta chiusa della stanza in cui lui non voleva ci disturbassero, si udiva solo un persistente, denso silenzio. Nessuno ha mai osato violare quel divieto, oltrepassare l’uscio. Nessuno ha mai nemmeno indugiato dietro la porta, origliato, atteso che giungesse un invito ad entrare o, semplicemente, che si riuscissero a distinguere rumori e voci all’interno della stanza.

Perché la stanza era un luogo sacro, il tempio destinato a un culto, uno spazio consacrato al sacrificio. Sopra il grande tavolo su cui lui mi faceva sdraiare, il mio corpo bruciava come l’incenso dentro il turibolo. E sempre sulla dura superficie del tavolo in legno di ciliegio, il sottile sigillo alla mia inviolabilità si era spezzato come l’ostia tra il palato e la lingua. Ricordo che al principio ho provato fastidio, un’avversione nauseante al divenire adulta.

Sopra il tavolo era sempre adagiata una lunga tovaglia bianca di lino: ne ricordo il tocco fresco sulle cosce, e ricordo che quando lui le dischiudeva, la pelle sfregava la stoffa ruvida e il fastidio avvertito sull’epidermide si confondeva con quello percepito dalla mente. E ricordo il giorno in cui, dopo aver sollevato la tovaglia in modo da non sporcarla, mi aveva trascinata verso di sé sulla superficie fredda del tavolo, prima di spingere la mano ad esplorare la mia verginità.

“Matilde, nessuno capirebbe. Resti il nostro segreto!” Confidando nel mio silenzio aveva tentato una carezza, come se questo fosse stato sufficiente a farci sentire complici. Lo aveva fatto con vergogna, tentennante. Poi era uscito dalla stanza e dalla mia vita. Avevo tredici anni e, in modo del tutto inatteso, stavo scoprendo il potere del corpo. Del mio corpo, impigliato nel groviglio esistenziale che mai nessuno, fino a quel momento, era mai riuscito a dipanare.

Tilla