icone disabili

Ciao a tutti, mi presento qui come Mariclà, sono un’ex insegnante di scuole medie, vivo in Sicilia, sebbene a tratti. Sicuramente avrete letto qualche mio commento (lo spero) e vi sarete chiesti, ma chi è questa? Come mai mostra interesse per il mondo della disabilità? Ho deciso di espormi, e di farmi condurre dal filo di Arianna della mia vita, che mi ha portato a Love Ability. Intanto, prima dei vent’anni non sapevo cosa fosse la disabilità, solo attraverso qualche episodio di alcuni libri, poiché a scuola a quei tempi, non vi erano bambini disabili, né difficili, (i quali venivano il più delle volte anch’essi parcheggiati e relegati nelle scuole e negli istituti speciali). Ricordo mia nonna, che quando rarissimamente s’incontrava una persona in carrozzina (erano gli anni sessanta) si faceva il segno della croce e diceva “Dio ce ne scampi e liberi…!”

A vent’anni ebbi la folgorazione, e decisi che mi sarei dedicata totalmente ai bambini disabili. Aveva preso contatto una signora, titolare di un noto istituto medico psico-pedagogico, al fine di aiutare una mia ex compagna di scuola che cercava disperatamente un lavoro, che, in effetti, è arrivato per lei e anche per me. Naturalmente non vi nascondo il disagio dei primi giorni, bambini con teste enormi, volti deformati, a casa mi veniva da piangere, e tutte quelle bavette sui bavaglini mi facevano salire su il pranzo. Gli occhioni di quei bambini, la maggior parte oligofrenici (con deficit cognitivo) i quali, però, comunicavano ampiamente il loro bisogno di affetto e di accettazione con il loro sguardo (con l’intelligenza del cuore). Mi occupavo di attività espressive, e mi piaceva tanto stare con loro, era quello che cercavo, e decisi che la mia professione futura sarebbe stata con questi bambini meno fortunati A quel tempo, molti di loro erano ricoverati negli istituti speciali, erano per lo più bambini caratteriali, o con ritardi nelle tappe dell’apprendimento, anche a causa di disagi socio-familiari. Non era ancora entrata in vigore la legge sull’integrazione scolastica (L.517/77) e fu così che pochi anni dopo, mi ritrovai insegnante statale, precaria, ovviamente, ma con la gioia e l’entusiasmo di chi sa di stare contribuendo a scrivere una pagina importante della nostra evoluzione sociale, cioè l’integrazione scolastica dei bambini/ragazzi con disabilità.

Ho partecipato e conosciuto attraverso corsi e formazioni varie i principali pionieri e formatori nel campo, sia nazionale sia internazionale, sebbene, molti miei colleghi partecipassero alla formazione per insegnanti di sostegno, con lo scopo avvicinarsi alla scuola più vicina alla loro abitazione. Alcuni nostalgici, tra i docenti (e i presidi) preferivano invece le vecchie scuole speciali, con il pretesto che i bambini difficili o con disabilità più consistente, disturbavano e non erano in grado di seguire alcuna lezione curriculare. Io ero felice di lavorare 40 ore settimanali presso un importante centro medico psico -pedagogico e il pomeriggio, via al corso di sostegno fino alle 21,00 (beata giovinezza) e l’università la misi un po’ da canto, allora. Ero stanca ma soddisfatta, (nonostante avessi già in atto, ma non lo sapevo, una sindrome detta di “stanchezza cronica”). Proprio perché ero rimasta affascinata dal mondo della disabilità, anche di quella degli adulti, che grazie a loro, la priorità delle cose si capovolse, si va all’essenziale, e i capricci per comprarti le scarpe nuove, non te le ricordi più, e poi l’assistenza nei bisogni essenziali di una persona che non conosci (magari andando presso le comunità), ma che si deve fidare di te, ti affratella inspiegabilmente alla persona che ti chiede supporto, ed è più quello che ricevi che quello che hai dato, alla fine, cioè una tenerezza particolare, un’intimità segreta con lei/lui, e le tue mani divengono le sue, non c’è separazione.

Trovavo bello, anche d’estate dedicarmi a campi di lavoro dove si svolgeva una qualche attività con la presenza di persone con disabilità (di vario genere), esperienze bellissime, vi assicuro, con gruppi di base d’ispirazione cristiana, o altri più laici, comunque il mondo della disabilità mi arricchiva, la realtà del mondo, al di fuori mi sembrava fatua e stupida.  Avevo compreso la priorità delle cose, e la gioia di donarsi (pur nella mia vita di giovane inquieta e anticonformista), facendo qualcosa per le persone meno fortunate di me (ma poi chi lo dice?). Le vacanze privilegiate degli insegnanti (c’erano, inizialmente periodi di estrema precarietà e i due mesi estivi non mi erano retribuiti), le trascorrevo ad Assisi e in altri luoghi spiritualmente significativi come Loreto, Lourdes, o nelle comunità spirituali e di condivisione, in fondo cercavo un luogo dove sentirmi in famiglia, dove condivisione e solidarietà non fossero parole vuote, anche perché mi sentivo profondamente estranea al mio ambiente familiare. La mia attività lavorativa, con le sue soddisfazioni, era per me, anche vivere un po’ una sorta di maternità, infatti, nei periodi di festa, molti bambini degli istituti speciali non andavano a casa con i genitori, per particolari situazioni, e così li portavo con me per Natale e per l’estate. Mi hanno dato tanto amore anche questi bambini difficili, etichettati impropriamente come handicappati, ma con un’esperienza di vita sulla strada che li formava in un certo modo e rubava loro l’infanzia. Poi anche i casi più gravi di autismo, psicosi, e altro ancora, che è davvero ingiusto catalogare freddamente, liquidandoli con una diagnosi statica.

Queste esperienze forti, intense, arricchiscono l’idea che una giovane, com’ero io, ha del mondo e dei problemi sociali. Non ero molto interessata a formarmi una famiglia, anzi vedevo le coppie chiudersi in un egoismo a due, pensavo che la mia vita fosse più soddisfacente nell’impegno sociale, e poi il mio spirito libertario mi proiettava altrove, semmai, avrei adottato un bambino difficile (e i pretendenti, scappavano). Mi attendeva di lì a poco, un’altra scelta vocazionale, una profonda conversione spirituale, la trasformazione da ragazza profonda e intuitiva, che amava fare tante cose e legata anche all’idea della carriera, tormentata, magari, ma con il cuore aperto, fino alla giovane donna che scopre nel mondo spirituale lo scopo della sua vita, la sintesi e la pienezza a lungo cercate. Innamorata del Signore, di Gesù, lascio la presa dell’io, mi abbandono a una pienezza e felicità interiori, che non necessita, per forza l’essere iperattivo nella realtà, a tutti i costi, primi della classe, anzi, la via dell’umiltà, del silenzio e della meditazione erano e sono per me la cosa più bella che abbia ricevuto in dono dal cielo, lo scopo ultimo della mia ricerca. Nella preghiera profonda, mi c’immersi, nonostante una malattia endocrina abbia condizionato buona parte dei miei anni più belli, ma non mi ha fermata, per piangermi addosso, ho lottato per vivere, e a un certo punto mentre guardavo l’infinito dal letto mi sono detta.” Ma cosa mi può succedere di così terribile, alla fine, morire è abbandonarmi nelle braccia di Dio, non soffrire più, e non c’è esperienza più bella e grande dell’Amore di Dio” (ed io l’avevo fatta!). Non ero ancora consapevole che si trattava di una morte iniziatica, la notte oscura dell’anima, ma da lassù gli aiuti arrivano, specie ai giovani. La mia attività d’insegnante e di terapista di “portatori di handicap”si espanse anche con i non vedenti, i sordi, gli ammalati mentali. Operavo presso un centro psico-medico-pedagogico, quando una mattina arrivò Daniela, una bimba ben vestita e ben pettinata, molto carina, di circa 8/9 anni, proveniva da un collegio di suore dal momento che non aveva alcun familiare che si occupasse di lei. Era socievole, stava sempre con un dito in bocca e si cullava, sembrava chiedesse a tutti di donarle attenzione, con i suoi occhi malinconici e la sua voglia di essere amata.

Purtroppo, molti, tra educatori e insegnanti sembravano ignorare queste sue richieste, anche perché era una bambina assai sensibile e delicata, che improvvisamente, era stata catapultata in un luogo dove si usavano le maniere forti. Infatti, la povera bambina era costantemente vessata dai compagni, che la prendevano in giro, questi erano per la maggior parte ragazzi di strada, bambini difficili, che la facevano spesso urlare dalla paura. Daniela mi cercava sempre e voleva essere coccolata un po’, ma l’ambiente educativo, verso di lei fu sempre freddo e ostile, e anzi qualche attenzione particolare verso la piccola (sola al mondo) era vista negativamente, fecero di tutto per allontanarla da me (tutti i bambini mi erano legatissimi, e ciò scatenò non poche gelosie). Erano trascorsi circa sei anni, e a fine rapporto lavorativo con quest’ente, decisi di adottare Daniela. Avevo ventotto anni, vivevo da sola, ma dopo un mese di prova, mi accorsi, con dispiacere che la patologia di Daniela, ormai  quindicenne, si era fatta di difficile gestione. Con senso di realtà mi resi conto che senza una comunità o associazione di riferimento alle spalle, la gestione di un’adolescente psicotica, oligofrenica, con fobie, stereotipie e con improvvisi attacchi violenti, erano aumentati a dismisura, (anche a causa di un ambiente affettivo e educativo inadeguato). Daniela è finita in una clinica per malati mentali, ma appena posso vado a trovarla, il mio rammarico, purtroppo, è quello di non averla portata via subito, prima che le distruggessero la sua personalità fragile e sensibile, ma vivevo  in famiglia ed troppo giovane, sebbene Daniela, oggi, nonostante le sue condizioni mentali, si ricorda tutto. Spero non mi percepiate solo come la bravissima ragazza (di un tempo) che fa volontariato, o la suorina mancata, no, io ero un vulcano e non accettavo regole e costrizioni, mi battevo contro le ingiustizie sociali, ero una “pasionaria”, (tranquilli, ho fatto anche altre cose) ma con un cuore caldo, o semplicemente con un’anima un po’ sensibile. Negli anni, ho conosciuto molte persone adulte con disabilità sia fisica che psichica, con le quali si è instaurato un bel rapporto di amicizia, e ove necessiti, di sostegno amicale e psicologico.

Ho conosciuto comunità attive negli anni sessanta e settanta, nate dalla voglia delle persone disabili, di autodeterminarsi, finalmente fuori dagli istituti. Penso, sopratutto a Capodarco di Fermo, alla comunità Papa Giovanni XXIII, in cui ho fatto esperienze che ti solcano l’anima, in maniera indelebile. Penso che ci sia ancora molto da fare, per affermare le pari opportunità nei riguardi degli amici con disabilità, infatti, è solo integrandosi nella vita di tutti i giorni (scuola, lavoro), e anche nei periodi di vacanze e nel tempo libero e nelle relazioni d’amore, che le persone con disabilità potranno essere percepite come sono realmente, cioè come tutti noi, diversamente uguali e speciali, risorse umane, e portatori di valori che ci umanizzano un po’ di più, tutti. Non dimentichiamo che si tratta, comunque, in molti casi di  soggetti adulti, capaci di autodeterminarsi (come i ragazzi di love ability, ad esempio), che reclamano la loro vita per intero,senza tabù e senza pietismo. Poi, però ad alcuni giovani tirerei le orecchie, sì perché si crogiolano nelle sicurezze familiari (un tempo finivano negli istituti i diversabili, ed erano costretti a crescere più in fretta) e si arrendono, è certamente più comodo farsi coccolare dalla mamma che uscire presto al mattino per andare a lavorare, ma questa è un’altra storia, com’è un’altra storia quella della mia esperienza di avere amato intensamente un uomo con disabilità. Vi dico soltanto, forza ragazzi, siete i migliori, da voi nascerà una società più giusta e più attenta agli altri (a tutti e a ognuno). Un abbraccio

Mariclà