La vita della persona con handicap è spesso costellata di eventi grotteschi e paradossali, che fanno percepire come vi sia ancora un pesante telo di imbarazzo e ignoranza a minare i rapporti con il resto della società.
Varie e avariate sono le sfaccettature comportamentali che gli altri individui adottano qualora si trovano a rapportarsi con una persona avente una disabilità visibile.
A seconda dei casi, si viene percepiti come degli eroi sovraumani, con annesse parole di stima e comprensione per tutte le difficoltà che il crudele fato ci ha posto davanti e per la triste condizione in cui siamo costretti a vivere, ponendoti sul podio d’onore solo perché sei uscito al pub coni tuoi amici a berti una birra, oppure come degli esseri angelici e buoni, incapaci di azioni malavitose e delinquenti, innocenti e puri cui è doveroso rivolgere occhiate lacrimevoli e assecondare in ogni singola frase, anche se si sta parlando di dare fuoco all’ospizio del paese, o infine come dei minorati mentali che non hanno ancora superato la soglia dei cinque anni di età, e che nonostante la triplice laurea, la moglie con due bambini a fianco e la Mercedes SLK parcheggiata nel vialetto, continueranno a rivolgersi a te con pacchette sulla testa e sorrisini compassionevoli, sillabando bene le parole delle frasi e interpretando la tua carrozzina come un passeggino per bambini.
A caratterizzare tali imbarazzanti atteggiamenti è una mal celata e pelosissima compassione, un pietismo tanto inopportuno quanto pesantemente offensivo derivato dalla falsa e odiosa convinzione che la vita di un uomo o di una donna con handicap debba per forza essere triste, insoddifacente, misera, grigia e mancante. Mancante di tutto ciò che l’uomo considera costitutivo per la felicità e l’appagamento individuale: indipendenza, stimoli, vita sociale, carisma, attrattiva, bellezza, successo lavorativo, sportivo e sentimentale, competenza in un dato ambito culturale, e chi più ne ha più ne metta.
Pongono una netta divisione tra “noi e loro”, e basta avere a fianco un cane guida, essere seduti su una sedia con le ruote o camminare poggiandosi su un arto di carbonio per essere inesorabilmente gettati in quella élite di sfigati che costituiscono i disabili, i diversamente abili, gli handicappati.
Poco importa se fai la pornoattrice, se hai quattro Rolex al polso, se hai appena vinto un premio Nobel o sei hai conseguito la decima medaglia d’oro alle Paralimpiadi, per questi individui rimani comunque un essere angelico da compatire, stimare come un eroe intrepido anche se sei al cesso che ti stai lavando i denti, e grande ammirazione è anche dovuta a tutti quei novelli Madre Teresa di Calcutta che hanno il coraggio e la forza mentale di passare con te buona parte della loro vita.
Quel gran genio di Nietzsche scriveva che non c’è cosa peggiore della compassione, perché avendo compassione degli altri ci si eleva, ci si sente superiori rispetto a quei sfortunati che stanno peggio di noi. E adesso la compassione è camuffata attraverso l’elevazione di queste persone a uno step glorioso nonostante facciano le cose più semplici ed elementari, considerate banali normalmente, eccezionali se compiute da una persona con handicap. Frasi come: “ Ah che brava, ma sei qui in città da sola? E ce la fai?” “ Sei andato a fare la spesa da solo? Ti stimo!” “Hai una fidanzata? Ma che brava ragazza! Deve avere proprio un cuore d’oro! Siete tenerissimi! Vi stimo tanto!” mi hanno sempre lasciato l’amaro in bocca, e un gran risentimento nei confronti di tali individui, che ho emblematicamente definito i “Ti stimo”.
Tali “Ti stimo” non pensano minimamente che l’handicap è una realtà che appartiene intrinsecamente all’essere umano, a ognuno di noi. Nessuno di noi è invincibile, inscalfibile, eterno. Basta davvero un nulla, una distrazione altrui, una strada bagnata, un gene che non funziona come dovrebbe per farci diventare “disabili”, gli stessi disabili cui destinavamo tanta pietà e commiserazione.
E non credo che possa esistere una sola persona che possa esser felice di venire considerata un gradino sotto o di essere elevata pietisticamente al gradino sopra, sempre e comunque fuori dalla norma, dalla società degli esseri umani, con una accondiscendenza dolciastra ributtante.
Allora perché riservare tale ottuso e ipocrita atteggiamento alle altre persone se noi per primi non vorremmo mai essere approcciati in tal modo? Perché i giornalisti e le loro testate continuano a utilizzare violini da “studio aperto” e toni accondiscendenti ogni volta che si parla di una persona con handicap?
Riprendere in mano la disabilità, abbracciarla, farla propria e riporla all’interno della normalità è l’unico modo per eliminare una volta del tutto la distinzione tra “normodotati e disabili” che è all’origine di tutti questi stomachevoli atteggiamenti nei confronti delle persone con handicap, che è all’origine della categorizzazione, della recinzione, dello stigma del “diverso e sfigato” posto sulla disabilità. Quest’ultima non ha nemmeno bisogno di elevazione, non di aggettivi come “speciale” o “eccezionale”, ma di essere posta alla pari. Né sopra né sotto, ma pari.
Emancipare, liberare la disabilità riconoscendo che è parte stessa della vita, è una possibilità reale appartenente a ogni persona. Ed ecco che allora si parla di giustizia, di riscatto dovuto al disabile, non più di sensibilizzazione o peggio ancora di nauseabonda compassione.
Sofia R.
Commenti recenti