Come donna, in una cultura di matrice patriarcale, maschilista e generalmente sessuofobica, dovrei temere a esprimere quello che vado a esporre. Se non è più tempo di roghi e inquisizione, il biasimo, l’emarginazione e la riprovazione sociali sono sempre in agguato per chi decida di accostare la propria immagine a tematiche esplicitamente sessuali. Se sono già arrivati i tempi in cui il sesso, offerto, venduto, barattato, non scandalizza in fondo più nessuno, di sicuro bisogna prepararsi ad affrontare un passaggio necessario e conseguente: la sua ‘regolamentazione’.
Ho sempre avuto la ferma convinzione che le tematiche di tipo sessuale fossero ancora rigidamente in mano a una mentalità maschile. Sdoganare alcuni fenomeni, renderli pubblici, va sicuramente a obliterare il vecchio adagio dei vizi privati e delle pubbliche virtù, nel quale il nostro paese pare eccellere. Tuttavia, ed è un fatto, quando è la mentalità maschile a rendere pubbliche e ‘normali’ determinate attività, non può esimersi dal farlo oggettivizzando la donna e soprattutto il suo corpo, ricadendo in una nuova e più sottile, ma non meno perversa, forma di dualismo: la morale religiosa che appartiene al nostro paese pretende di disporre del corpo della donna in fatto di ‘virtù’, la morale decadente laica pretende invece di disporne in merito ai ‘vizi’ maschili che la donna, col suo stesso corpo, dovrebbe soddisfare.
Di fatto, alla donna, viene lasciata solo una scelta apparente: se appartenere alla categoria delle persone rispettabili, sessualmente e moralmente inattaccabili, oppure andare a nutrire la schiera di stelline che cedono corpo e favori sessuali in cambio di ciò che agognano ottenere. Posso affermare sicuramente che le donne che cadono in questa trappola dualistica non sono più donne, ma replicanti degli uomini, in quanto ne hanno interiorizzato i ‘comandamenti’.
Perché questa premessa? Dal mio punto di vista, siamo di fronte a una netta quanto inevitabile inversione di tendenza. L’assistenza sessuale e la prostituzione possono senz’altro essere viste come prospettive antitetiche, sebbene apparentemente assimilabili l’una all’altra, se non si prendono in esame le considerazioni che sto per esporre.
Nella prostituzione solitamente l’uomo usa una donna e paga per l’uso del suo corpo. Ci sono molte ragioni per cui un uomo sente il bisogno di ricorrere a pratiche che non ammetterebbe mai con una partner e quindi si rivolge a una professionista del sesso. Senza esprimere giudizi di alcun tipo, affermo che questa pratica, in vigore fin dalla notte dei tempi, nasce da una prospettiva maschile, da una cultura generata da principi maschili. Una cultura in cui il maschile esercita di fatto il predominio sul femminile in ogni ambito.
L’assistenza sessuale viene spesso confusa con la prostituzione. Io stessa, offrendo la prima, mi sono vista rivolgere richieste che appartengono alla contrattazione tipica di quest’ultima. Di fatto, la mentalità dei più non è assolutamente preparata a cogliere la portata epocale, dal punto di vista morale, dell’introduzione di una pratica come l’assistenza sessuale nel nostro paese. Nell’assistenza sessuale non vi è strumentalizzazione, uso e mercificazione del corpo della persona che la offre. Il corpo viene sì usato, ma come strumento nel pieno possesso dell’operatrice per trasmettere benessere, quasi esclusivamente attraverso il contatto e l’empatia, l’affettività che si sviluppa toccando la persona a cui si sta facendo assistenza sessuale con il massimo della dolcezza e della sensibilità che la sua condizione generalmente richiede. Non dimentichiamo che di norma questa pratica nasce per offrire a chi non ha autonomia del corpo e l’uso delle mani, la possibilità di interagire attraverso il contatto manuale con qualcuno che sappia rendere quell’esperienza preziosa dal punto di vista del benessere psico-fisico-emotivo. Spesso il fatto che non sia prevista oralità e penetrazione viene visto come un fattore sminuente. Il ragionamento nel quale si incagliano i più è che vista la necessità di pagare per una pratica assistenziale, a quel punto è chi paga a decidere che cosa si debba fare. Errore. Questa è la prospettiva maschile che si richiede di cambiare. Secondo una cultura generata dal pensiero maschile, la stessa che fa incorrere nella considerazione precedente, una ‘lovegiver’ non dovrebbe nemmeno esistere. Un’assistente sessuale di fatto non è una tipologia di donna che abbia interiorizzato i dettami di una cultura di stampo patriarcale. E’ una donna che sente di poter trasmettere benessere erotico-affettivo a persone private per lo più, data la loro condizione fisica e quindi esistenziale, della possibilità di imbattersi in un partner, fisso od occasionale, col quale imparare a scoprire limiti e possibilità del proprio corpo riguardo alla sfera sessuale. Questo è un atto di amorevolezza del tutto impersonale che nasce da una vocazione del tutto personale che caratterizza un certo tipo di donna, la quale vede il sesso sempre e solo come un atto d’amore, in qualunque forma si decida di condividerlo.
Questo è il punto che si richiede di tenere sempre presente quando ci si approccia all’assistenza sessuale: essa è il frutto di una coscienza femminile che si riappropria dell’uso autonomo del proprio corpo e che, spontaneamente, decide di usarlo per trasmettere cura e amorevolezza a chi ne ha bisogno. Così come ci sono donne che hanno fermamente interiorizzato i dettami di una cultura maschile, è opportuno che gli operatori uomini che intendano dedicarsi a questa pratica, così come le persone disabili che la richiedono, abbiano ben chiaro questo fondamentale punto di partenza e inizino a ragionare in termini ‘femminili’, interiorizzando concetti come empatia, cura, benessere olistico. Il ‘pago quindi detto le regole’ è tassativamente escluso.
Un’ultima considerazione. Se qualcuno dovesse chiedersi, a questo punto, perché l’assistenza sessuale non sia una forma di volontariato attraverso il quale alcune pie donne rivolgono attenzioni alle persone disabili senza che il denaro debba entrarci in alcun modo, gli risponderei che ci sono molti lavori che partono da un’indiscutibile vocazione e non per questo si pretende che vengano offerti solo in forma volontaria. La stessa assistenza personale al disabile non dovrebbe essere fornita da chi non possieda le necessarie caratteristiche di competenza e sensibilità, ma nessuno pretende che sia un volontariato. E’ un lavoro o comunque una pratica retribuita. Il nocciolo del problema, semmai, dovrebbe essere il far sì che il compenso della ‘lovegiver’ non ricada tra le spese personali del disabile, già spesso fortemente provato dai sempre maggiori tagli assistenziali che vanno a rendere una vita già irta di difficoltà ancora più ardua da vivere.
Shakti
Commenti recenti