Avevamo chattato per molto tempo. I primi giorni, quando lo conobbi su non so più quale sito, gli avevo proposto una specie di scommessa: proviamo a non mandarci una foto?

“Internet offre questa grande opportunità”, gli dissi, “permette di conoscersi prima dentro e poi fuori. Nella realtà non si può mai fare. Proviamoci, vediamo cosa ne esce. Non sei curioso?”

Era curioso, un po’ alternativo, o forse molto disperato; fatto sta che accettò la mia proposta.
Non era uno di molte parole. Scriveva frasi brevi e piene di puntini. Non credo mi capisse davvero, ma io su quei puntini potevo mettere qualsiasi cosa, e avevo bisogno di immaginare che fosse la persona giusta.
Faceva il musicista. Quando passammo dalla chat al telefono iniziò a farmi ascoltare lunghissimi minuti di musica classica. In fondo non mi dispiaceva, mi sembrava anche quello un modo alternativo di comunicare. Coccolavo la cornetta, senza badare troppo alla musica che c’era dietro.
Una sera mi fece ascoltare la sonata a Kreutzer, dicendomi che sembravano due amanti impegnati a far l’amore.

Venne a trovarmi, finalmente, dopo qualche mese. Ci incontrammo in piazza, lui era seduto ai piedi della fontana. Lo avrei riconosciuto perché era tutto vestito di nero, in modo elegante. Lui, invece, non sapeva ancora come riconoscermi.

“Nooo”, disse, vedendomi arrivare su una carrozzina. “Noooo, non ci posso credere”. Però lo diceva sorridendo, era stupito, sì, ma quasi come fosse una bella sorpresa. O almeno così mi sembrò sul momento, forse immaginai anche questo, mentre osservavo il suo sorriso un po’ storto. Io ero disabile, ma lui almeno non aveva dei bei denti.
No, ok, eravamo comunque ben lontani dall’essere alla pari.

Mi ero organizzata, avevo trovato una casa dove portarlo, un film da vedere, e due letti sui quali dormire. Due. Singoli. Vicini, sì, ma affiancati per il lato corto, dalla parte della testa. Erano sistemati così, in quella casa, e io certo non sarei riuscita a spostarli da sola. Forse, nemmeno lo avrei voluto.

Entrammo in casa, ci sedemmo sui letti come fossero un divano; due parole stentate. Poi un braccio, il suo braccio, attorno alle mie spalle. Calore. Uomo. Stava per succedere? 
Non era mai successo. Non era mai successo proprio nulla, non avevo mai baciato nessuno, ed era ormai un po’ tardino, secondo i parametri dei miei coetanei. Per questo ero finita a cercare ragazzi su internet.
Fissavo il muro. Me lo ricordo, lo spigolo bianco tra una parete e l’altra, lo fissavo ostinatamente, per non guardare lui.

“Vabbè, se non vuoi, pazienza. E’ la donna che decide. L’uomo ci prova, e la donna decide”. Era anche un gentleman, il musicista, o almeno ci provava, per quanto poteva coi i suoi vent’anni.
Non è esatto che non volessi, ero solo paralizzata. Anche se sì, una parte di me non voleva, perché non era così che lo avevo immaginato: nei libri e nei film si dicevano ti amo e si mettevano insieme, emozionati e avvolti da lacrimevoli sentimenti… all’epoca, non sapevo ancora quanto la realtà fosse diversa; non conoscevo i compromessi, le goffaggini iniziali, né avevo il coraggio di buttarmi, anche solo per vedere come va o fare un’esperienza. Perciò, ero poco convinta da quel moro sdentato: in fondo l’appena incontrato, avevamo sempre parlato poco di noi, e di certo non bruciavo d’amore; al massimo, di curiosità e terrore.

Non lo baciai. Seguì una cena imbarazzata, parole sbadate e battute nervose, a cui si rideva per cortesia. Rimase un po’ stranito alla notizia che avremmo dormito lì, nella stessa stanza, testa contro testa.
Durante la notte, la sua mano mi cercò, arrivando al mio braccio sul cuscino. Risposi al suo gesto: lo accarezzai leggermente, e fu forse il primo contatto fisico che avevo con un uomo in una situazione di intimità.

Presto me lo ritrovai nel letto, al buio. Calore, corpo, odore di uomo; era lì, incredibilmente vicino, anzi attaccato, a contatto con la mia maglietta, sempre più pesante, sempre più sopra di me. Sopra quel corpo un po’ deforme, che temevo non sarebbe mai stato toccato da nessuno.
Era estremamente delicato. Io rimanevo del tutto immobile, non avevo il coraggio di incoraggiarlo nemmeno con una carezza. Lui, pazientemente, guadagnava un centimetro dopo l’altro: la spalla, il braccio, il petto, il fianco. Ricordo una strana sensazione quando allungò un piede ad accarezzare il mio: sì, un piede, cosa poteva c’entrare col sesso quell’appendice inutile del mio corpo? Cosa ci andava a fare, da quelle parti malmesse? Potevo forse usare anche quelle per sedurre qualcuno?
Non si spinse oltre. Arrivò ad appoggiare il suo viso sul mio, sentii la sua barba contro la mia guancia.

Non lo baciai nemmeno allora. Gli nascosi la mia eccitazione, che pure mi bruciava – mi avrà senz’altro creduta una frigida figa di legno – e così restammo, attaccati e muti, fino al mattino.

Qualche tempo fa, aprendo un vecchio diario, ho trovato una nota su di lui: T. mi ha fatto scoprire cos’è il desiderio.

Era il primo passo.

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Irene è già autrice di questo articolo:

Irene e la voglia d’amare.