ragazza disabile

Da casa mia si vedono la Gran Madre e, dietro, la collina che sale al monte dei Cappuccini. Lassù trovo rifugio ogni volta che voglio sovrastare la città. Mi sporgo sul muro di cinta del Belvedere e la vista del cielo riempie gli occhi di mistero e di fantasie. C’è un’ora in cui l’oro scende sui tetti di Torino e sui fiumi che l’attraversano. Il Po, nel suo serpeggiare quieto, riverbera le luci del tramonto: porporina, bronzo, giallo di stagno. E mentre il sole scompare dietro le Alpi, la mia città si prepara alla notte ricoperta di sontuose luminescenze. Torino è un mosaico bizantino. Ricorda gli anni d’oro della mia infanzia, l’oro musivo steso sui miei giorni pieni di speranza e di bugie. Perché ci sono stati – anche se, talvolta, lo dimentico – momenti di grande spensieratezza, laddove tutto pareva possibile. Sognavo di vivere una vita ordinaria, serena. Ci sono stati momenti simili, davvero. La vita era un giocoso dipinto le cui lumeggiature davano respiro alla mia crescita. Al contempo, un oscuro impasto pittorico incalzava per scurire la tela.

Ho imparato a provare piacere in risposta alla voragine cromatica che mi braccava. Mi divertiva l’essere desiderata, provocare, indurre in tentazione. Quel corpo di bambina germogliava come un ramo di ciliegio sul nascere della primavera. Non riuscivo ancora a codificare l’origine del mio malessere, ai miei occhi le gambe che non mi reggevano in piedi non mi rendevano diversa dai miei amici. Che lo fossi me l’hanno fatto comprendere gli altri. I compagni con i quali mi accaparravo il piacere. Loro mi hanno fatto sapere di essere una storpia, uno squallido fenomeno della natura, un errore. E mia madre, nei mesi bui dell’esaurimento nervoso, ha aggiunto alle qualifiche che mi attribuivano quella di “figlia di Satana”, perché, diceva, ero venuta al mondo per rovinarle la vita.

La mia vagina mi ha salvata tante volte. Seduta sulla bicicletta rossa mi dondolavo fino ad offuscare i pensieri. Stringevo le cosce attorno al sellino, e la superficie rigida che sfregava il sesso infuocava la mente, dava una tregua al dolore. Non ho più pensato alla morte. Fino agli undici anni. Mi nascondevo nei bagni della scuola, negli sgabuzzini stipati di scope, cenci e vecchi banchi rotti, nell’infermeria per allontanare il richiamo del precipizio. E sperimentavo la mia desiderabilità.

C’è un momento in cui il germoglio si trasforma in fiore. Una frazione di secondo. Ho detto addio all’infanzia dentro una sala operatoria, ma quell’infinitesimo in cui è avvenuta la metamorfosi ha preceduto di qualche mese quel congedo.

Non so perché, ad un certo punto, il piacere che giungeva dal mio sesso ancora acerbo ha smesso di proteggermi. Forse per il senso di colpa, forse no. L’idea della morte è tornata a far compagnia ai miei giorni. Ho smesso di rispettare il corpo, l’ho ripudiato. A undici anni ho cercato, nuovamente, di uccidermi. Solo che, questa volta, al miraggio dello strapiombo ho preferito l’invisibilità del corpo. Smettere di nutrirmi ha emaciato il volto, prosciugato il fisico. Ho smesso di andare a scuola. Stavo male ogni ora del giorno, soffrivo senza tregua. Il dolore della mente si era incarnato. Aveva assunto le mie sembianze. Non provavo più piacere alcuno, nemmeno lo cercavo. Il corpo era un ricettacolo di mali incurabili; era il corpo di una storpia umiliata, respinta, derisa; era un corpo martoriato dall’inedia, malato, infelice. Quanta disperazione in quei mesi! Ricordo il telescopio che mio padre mi aveva regalato, immaginando di suscitare un interesse in grado di scalzare il dolore. Ma non è mai bastato alzare gli occhi al cielo, invocare la salvezza da una costellazione. Ciò che mi ha salvata dall’abisso non è stato il firmamento.

Tilla

Qui la prima parte.