donne disabili

La mia storia è quella di un’anima irrequieta, crepuscolare e fosca come certi pomeriggi d’autunno con il cielo bigio, denso di pioggia. Come il cielo su Torino. La mia Torino. Chi è stato, anche solo di passaggio, nel capoluogo piemontese sa di quale sfumatura di grigio sto parlando – senza, peraltro, voler far eco ad una nota opera letteraria. Chi ha camminato sotto il cielo di Torino ne conosce la densità, il peso, l’odore. Dicono che la mia sia una città magica: lo credo anch’io. Nel bene e nel male.

Sono nata con una grave malattia genetica, una di quelle che per definirle devi usare termini che ai profani fanno paura: Atrofia Muscolare Spinale. E devo ammettere che il nome risuona imponente al pari degli effetti che la malattia ha sul corpo. Non mi dilungo, non è necessario. Sono una donna fortunata, la malattia non ha intaccato la bellezza del volto, tuttavia ha deturpato, umiliato e crocifisso il corpo. Ero una bambina come tante altre; mio padre e mia madre si accorsero che qualcosa non andava in me soltanto quando provarono a farmi compiere i primi passi. Come ho detto, ero una bambina come tante altre, ma da donna sono diventata uno stigma, il capro espiatorio, un oggetto sessuale. Non che mi sia dispiaciuto, in fondo, in talune circostanze.

Ma torniamo al corpo, l’alfa e l’omega di ogni dolore e di ogni gioia. Torniamo a quelle spoglie da cui prendo le sembianze e che sono state per me, sempre, una condanna e un privilegio. Amate e odiate carni. Queste fattezze mi hanno reso storpia, bambola, preda. Agli occhi di molti e anche ai miei. Mentirei se dicessi che ho unicamente patito la mia condizione. In alcuni frangenti ne ho goduto, l’ho trasformata in un ricettacolo di piacere, coinvolgendola in un’edonistica ricerca di soddisfazioni e ricompense. Sotto il cielo della Mole, una storpia può trasformarsi in una puttana come il piombo della leggenda può tramutarsi in oro. Solo che, talvolta, la trasmutazione resta incompleta e ciò che ne deriva è un ibrido che non riesce a nascondere la propria natura contraffatta, il principio illusorio che oscilla come un pendolo tra l’inganno e l’alchimia.

Sono nata in una famiglia conservatrice, cresciuta nei cristianissimi precetti di abnegazione e penitenze. Ho ferito tante volte il corpo e lo spirito. Li ho fatti a pezzi e poi li ho ricomposti. Non sono mai stata troppo selettiva nella scelta dell’arma: un coltello, la mente, un cazzo, un veleno… Ho tentato il suicidio, per la prima volta, a sei anni. Volevo punirmi per essere nata malata. Mi sono lanciata lungo una strada in discesa, sulla mia bicicletta rossa, con le rotelle. Sono caduta prima di arrivare al fondo della strada, ho battuto la testa sull’asfalto e ho perso i sensi. Ho riaperto gli occhi in ospedale. Non sapevo, all’epoca, che il precipitare era stato più di un esperimento gravitazionale. L’ho capito con gli anni, ogni qualvolta l’idea di gettarmi nell’oblio mi faceva ripensare a quella corsa sulla bicicletta cigolante. L’idea della morte e del sesso sono cresciute insieme a me, avvinghiate l’una all’altra, simbiotiche.

Fu in seconda elementare che iniziai a provare piacere nell’essere desiderata. Durante i giochi con i miei compagni di scuola, mi sfilavo gli abiti, uno ad uno, per vedere i miei amichetti emozionarsi. L’avevo visto fare in un film e mi pareva divertente. Tuttavia, un paio di bambini raccontarono alle famiglie del mio comportamento immorale, e i genitori preoccupati riferirono al mio insegnante più o meno le stesse parole – arricchite da qualche dettaglio socialmente rilevante. Sicché lui le comunicò alla mia famiglia e da quel momento non ci fu più gioco senza vigilanza, né preghiera senza colpa. Era imperativo: “Il sesso è sporco. Una colpa.”

Ma quella sensazione di volare, quello slancio verso il precipizio, l’attrazione della caduta libera, non erano meno esecrabili. Avrei dovuto, allora, rinnegare la mia natura, vivere in catene?

Tilla

Seconda parte: www.loveability.it/la-storia-di-tilla-seconda-parte