Ma che sono questi i problemi della vita?
Questa domanda mi è stata rivolta un giorno da una “gentil donna” impiegata di un ufficio in cui mi ero recata per le pratiche necessarie al rilascio della patente speciale di guida.
Quando a un certo punto, avendo capito che rischiavo di dover rifare tutto grazie ad un certificato sbagliato rilasciatomi dalla “signora” di cui sopra, iniziai a sbraitare e piangere di rabbia (con divertimento di quelli in fila dopo di me), lei se n’è uscita candidamente dicendo: “Signorina, ma che sono questi i problemi della vita?”.
Ed io lì mi sono bloccata e ho pensato che fino allora non avevo capito nulla della vita, mentre la signora che mi stava davanti, lei sì che sapeva quali erano i veri problemi della vita!
Che ne potevo sapere io?
Come un film muto (ma a colori), ho visto scorrere davanti ai miei occhi la mia vita, da quand’ero bambina e, passeggiando con mamma, non capivo perché le persone che incontravamo mi fissassero in modo strano.
Ho ricordato le volte in cui mamma cercava di spiegare ad altre mamme, più fortunate, qual era il mio problema e queste le chiedevano, per tutta risposta: “Ma almeno è intelligente? Capisce?”.
Ricordai di com’ero sempre la più piccola di tutti, anche di quelli più giovani di me, e di come gli altri bambini mi prendessero in giro (guarda com’è piccola! ma cos’ha sulla schiena?!?). Non sapevo correre e cadevo spesso e quindi non potevo giocare con gli altri (tanto nessuno voleva giocare con me).
Spesso non ero capita perché non “sapevo parlare bene” ed ero considerata stupida, anzi, “babba”, come diciamo più coloritamente noi in Sicilia.
Ma babba purtroppo non ero e così iniziai a vergognarmi e a odiare il mio corpo “strano”, con quella gobbetta dietro.
Ancora in piedi davanti alla “gentile impiegata” dell’ufficio patenti speciali, ho ripensato agli anni della scuola. Alle elementari non è andata poi tanto male perché la maestra (allora era una sola) è riuscita a farmi accettare dai compagnetti. Io poi ero furbetta e, essendo molto brava, per accattivarmeli li aiutavo nei compiti.
Fuori dalla mia classe-nido però non ci andavo mai da sola!
Alle medie invece mi sono ritrovata in una vera giungla: i ragazzini di quell’età sanno essere davvero spietati con quelli come me e nel mio caso hanno dato davvero il massimo!
Nemmeno la mia bravura è servita a conquistare i compagni di classe che mi hanno emarginata dal primo giorno. Ma ho resistito stoicamente per tre anni perché almeno la licenza media dovevo averla, per non dare altri dispiaceri ai miei genitori che, ovviamente, non sapevano nulla delle mie sofferenze a scuola.
Finite le medie però mi sono rifiutata categoricamente di continuare ad andare a scuola e mi sono letteralmente chiusa in casa. L’unica difesa possibile, infatti, allora per me è stata la fuga: rinchiudermi in un mio mondo dove non mi vedevo come mi vedevano gli altri, anzi, non mi vedevo affatto.
Inoltre, dopo un ultimo viaggio della speranza a Firenze molto deludente e quasi inutile, ho rifiutato di vedere altri medici e ho vietato a chiunque di parlare del mio “difetto fisico” in mia presenza, rinchiudendomi sempre più in me stessa.
L’età adolescenziale è difficile per tutti, pensate quanto possa esserlo per una ragazzina che scopre giorno per giorno di essere “brutta”e convinta inoltre di essere un peso per tutti: quanta solitudine!
Ma sono forse questi i problemi della vita? Sicuramente no!
L’unico conforto durante quell’esilio volontario sono stati per me i libri e la musica. Tenevo la radiolina sempre accesa e leggevo tutto quello che mia sorella riusciva a procurarmi, andando alla biblioteca comunale al posto mio, ovviamente.
Fu proprio mia sorella, forse stanca dei continui viaggi in biblioteca, a tirarmi fuori da questo mio mondo costringendomi a tornare a scuola. Mi ha iscritta al primo anno dell’istituto professionale per l’agricoltura (solo perché era il più vicino a casa).
Come descrivere il mio terrore in quel primo giorno di scuola? Ero convinta che gli altri non mi avrebbero accettata ed era soprattutto il mio tipo di handicap a preoccuparmi.
Ricordo di essere arrivata per prima in classe e, mentre aspettavo che arrivassero gli altri, pensavo che se io fossi stata sulla sedia a rotelle, o zoppa, o cieca, o sordomuta, insomma qualcos’altro, gli altri mi avrebbero accettata più facilmente. Ma così “piccola e deforme” no, si sarebbe ripetuto quello che era successo alle medie. Fortunatamente gli altri non hanno avuto nessuna difficoltà a farmi diventare una di loro, anzi, mi hanno insegnato ad accettarmi per quella che ero, facendomi sentire addirittura speciale nella mia diversità. E poi ero ancora la più brava e aiutavo sempre tutti: ero diventata una vera celebrità nell’istituto.
E questo sicuramente potrebbe non essere un problema della vita!
Da lì è iniziata la lenta risalita che mi ha portata a essere quella che sono oggi. Dopo il diploma, mi sono trasferita in un’altra città per frequentare l’università, mi sono laureata e ho pure conseguito un dottorato di ricerca.
Durante gli anni di università ho abitato in una casa con altre ragazze, come una normale studentessa fuori sede: sono stati gli anni più belli della mia vita forse!
Oggi sono bibliotecaria (guarda caso), abito “felicemente da sola”, guido l’auto (nonostante i tentativi della “gentil donna” di impedirmelo), tutte cose per me inimmaginabili quando me ne stavo chiusa nella mia stanza a desiderare solo di morire.
No, non sono questi i problemi della vita!
Certo ci sono sempre dei momenti bui, quando mi rendo conto che, nonostante le mie lotte e i miei piccoli successi, per molti resti comunque diversa, handicappata nell’accezione più negativa del termine. Ci sono le volte in cui mi pesa non avere una persona accanto con cui condividere gioie e dolori (mi sono innamorata troppe volte anch’io, non corrisposta, ogni volta ho creduto di morire). Ma poi capisco di essere comunque importante per tante persone. L’amicizia, se vissuta bene, può darti tanto.
Per tutto il periodo dell’università e del dottorato, incredibilmente non mi sono più occupata della mia malattia, vivendo una vita quasi normale. Ma quattro anni fa, dolori alla schiena, alle gambe e alle braccia, diventando sempre più forti, mi hanno convinta a sottopormi a una serie di controlli.
E così, dopo un lungo ricovero durante il quale mi hanno letteralmente vivisezionata facendomi sentire un porcellino d’India, ho conosciuto finalmente il vero nome del mio male: Mucopolisaccaridosi IV A o Malattia di Morquio.
Muco che? – direte voi – beh, me lo sono chiesta anch’io perché, confesso, che fino allora sconoscevo del tutto l’esistenza di questa malattia, anzi, di questo gruppo di malattie: di mucopolisaccaridosi ce ne sono di più tipi, ognuno causato dal deficit di uno specifico enzima.
Oggi so che è una malattia metabolica rara (molti, infatti, ancora non la conoscono), ereditaria. Al momento non esiste nessun tipo di cura, se non a livello di sperimentazione.
La mia è una forma lieve, quindi non sono certamente questi i problemi della vita!
Come ho reagito? All’inizio mi è venuto da ridere per il nome della malattia: Morquio! Mi ricordava il telefilm “Mork e Mindy”: io ero Mork ovviamente, il marziano, che salutava dicendo “nano nano”, appunto!
Poi rabbia, non tanto per averlo scoperto così tardi, ma per il fatto che la malattia fosse causata dalla carenza di un enzima microscopico e dal nome impronunciabile che non imparerò mai. Provateci un po’ voi: N-acetilgalattosamina-6-solfatasi!
Sul perché io mi sia trascinata dietro sino 40 anni una diagnosi sbagliata ha influito sicuramente il fatto di essere nata in un paesino della Sicilia, da una famiglia semplice che non aveva grandi possibilità economiche ma che, comunque, mi ha dato il massimo di quello che poteva darmi (libri compresi).
Forse è stata soprattutto colpa mia che, come già detto, a un certo punto mi sono rifiutata di vedere altri medici, tanto avevano già detto ai miei genitori che non c’era nulla da fare, senza curarsi del fatto che io fossi presente e li ascoltassi!
Ma dopo i primi momenti di naturale disorientamento, ho deciso di conoscere meglio questo Morquio, con il quale avevo inconsapevolmente convissuto fino allora!
Per me si è aperto un mondo nuovo: siamo in tanti (altro che rara!) ed esiste addirittura un’associazione che si occupa di noi (Associazione Italiana Mucopolisaccaridosi e affini – AIMPS), con una rivista tutta nostra!
L’anno scorso ho partecipato al Congresso dell’AIMPS e per me è stata un’emozione fortissima ritrovarmi finalmente in un luogo dove non ero “diversa”, c’erano tanti “Morquini” come me e nessuno mi guardava come un fenomeno da baraccone.
Per la prima volta forse mi sono sentita davvero meno sola: ero una fra tanti. Non immaginate neanche la fatica nel trattenermi dall’andare in giro salutandoli con “nano-nano”! Ma magari poi non tutti avrebbero capito e quelli sì che sarebbero potuti diventare problemi della vita!
Ritornando alla domanda iniziale della “gentil donna” ispiratrice di questo racconto-riflessione, ma qualcuno mi può finalmente spiegare quali sono i problemi della vita?
Concetta (da Catania)
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